martedì 8 aprile 2008

I Care: un’iniezione di…empatia (altro che compito 6)

Quella di oggi è stata proprio un’esperienza. Già, perché è da 6 mesi che non facciamo altro che frequentare i corsi a macchinetta, a volte senza neanche essere coscienti di quello che saremo chiamati a fare tra qualche anno.
Sono rare infatti le occasioni che ti portano a scoprire l’aspetto più umano di una persona o di un docente specialmente nell’ambito universitario…ma in queste poche possibilità ci rendiamo conto di quanto sia importante riflettere ed osservare queste cose.
Stamani ci sono stati presentati esempi di persone che hanno saputo rendere vivo l’ “I Care” di Don L. Milani. E per questo ringrazio con tutto il cuore chi ha organizzato questo “seminario” ;)…
Vivere i nostri studi e il mondo dell’università non può limitarsi ad un assorbimento passivo di concetti e nozioni. Certo: è necessario un passaggio del genere. Ma la professione che abbiamo scelto è pure altro. Piano piano ci si accorge dell’esigenza di mettere in gioco se stessi e i propri sentimenti nel momento della relazione con l’altro, non per uno scadente e poco costruttivo sentimentalismo né solo con i pazienti, quando saremo medici.
Quella che compiono i ragazzi di “M’illumino d’immenso” è un’opera che lascia il segno e che vive di gesti semplici, che poi sono quelli che in un rapporto confermano continuamente l’affetto che proviamo nei confronti di qualcuno. Spendere del proprio tempo per l’altro, per farlo sentire felice ed importante. Specie se nel bisogno.
A questo proposito vorrei consigliare di leggere la storia di S. Camillo De Lellis (1550-1614) che nel contesto in cui si trovava compì una vera e propria rivoluzione nell’ambito ospedaliero. Un opera che per certi aspetti, nel nostro piccolo, risulta realizzabile (e i ragazzi di stamani ne sono la prova!) al di là delle confessioni di ciascuno…
Grazie ragazzi per la vostra empatia e per il vostro coraggio di mettervi in gioco e andare oltre la banalità, per averci donato l’esempio di chi sa mettersi nei panni dell’altro e condividerne le sofferenze, per averci ricordato che siamo uomini prima ancora che medici.

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